Quanto sono ridicole le donne-manager con abiti maschili?

Un titolo provocatorio? Tutt’altro. Se digitiamo su internet “donna in carriera” e “donna manager”, infatti, le immagini che ci vengono proposte sono di donne in abiti da uomo. La cosa è abbastanza “normale”, diffusa e socialmente accettata. Ma il contrario?

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Quanto sono ridicole le donne-manager con abiti maschili?

L'articolo di oggi affronta la questione da un’angolazione diversa, con una nuova domanda: una donna con abiti maschili, il classico tailleur giacca e pantalone, ci fa ridere? La risposta, quasi certamente, è NO. Ma un uomo vestito da donna? Che reazione ci scatena un uomo cisgender, eterosessuale, che si identifica come uomo, ma che preferisce gonna e scarpe col tacco alto al completo con giacca e cravatta?

Ecco il concetto di crossdressing, ovvero l'abitudine di indossare indumenti comunemente associati al sesso opposto. Riconoscere e rispettare il crossdressing non è una questione moda, ma si riconduce alla costruzione di una cultura aziendale che accoglie tutte le forme di espressione di ciascuno.

Ne abbiamo parlato con Stefano Ferri, giornalista, scrittore e consulente in comunicazione attivo da anni su questa complessa tematica, che per primo ha provato a sdoganare in Italia il crossdressing. Etero, sposato e padre di una figlia adolescente, Stefano Ferri si trova da sempre a suo agio in abiti femminili, e divulga per normalizzare la scelta, una scelta fatta da lui stesso dopo tanti anni di stigma e timori personali.

Prima che etero, gay, lesbiche, trans etc, siamo esseri umani con una sessualità biologica subordinata a quella psicologica. 170 anni di psicologia ci insegnano che abbiamo tutti una parte maschile e una femminile. Quando si dice che dal punto di vista fisico siamo o solo maschi o solo femmine si dice il vero (e non è nemmeno regola assoluta perché ci sono gli intersex). Però spesso ci si dimentica che a monte degli organi genitali abbiamo il cervello, il nostro centro direzionale, dove ognuno custodisce un esclusivo mix psicologico di maschile e femminile, irripetibile come le impronte digitali o il timbro della voce.”

Ciò che consideriamo “normale” è in continua evoluzione

 

Di per sé è un concetto semplice, ma complesso da applicare, ma comprendere questo concetto è fondamentale per creare ambienti inclusivi dove ogni individuo possa sentirsi accettato e valorizzato qualsiasi sia la sua identità e la sua espressione del sé.

Spesso quando si parla di inclusione, infatti, si pensa a minoranze più o meno lontane e sottorappresentate, scordandosi chela libertà di espressione di ognuno di noi passa da ogni piccola libertà a cui, talvolta, rinunciamo per evitare giudizi, sguardi e risatine.

Stefano approfondisce il cambiamento della norma: “Si tende a considerare normale un fenomeno solo perché lo si osserva su molti, ma quel che oggi è norma ieri poteva non esserlo. Si vedano, per esempio, le donne coi pantaloni, o con la giacca, o con scarpe maschili, sino a fine anni Sessanta osteggiate come depravate – e nell’Ottocento persino arrestate per indecenza! – e oggi invece sacrosantamente sdoganate.”

Questo significa che ciò che consideriamo"normale" è in continua evoluzione e che le pratiche di inclusione devono adattarsi e crescere con queste evoluzioni.

 

È dunque gravissimo e moralmente inaccettabile osteggiare coloro le cui tendenze appaiono scostarsi dalla norma”, continua Ferri. “Tutti i comportamenti sessuali vanno accettati e legittimati purché non facciano del male a nessuno. Affibbiare un’etichetta negativa all’omosessualità è un crimine, così come lo è affibbiarla alla transessualità, o alla bisessualità, o al crossdressing. Gay, lesbiche, trans, bisex e cross altro non sono se non persone con mix psicologici maschio-femmina di tipologia più rara. Ma ciò non può essere motivo di delegittimazione.”

Ecco che cambia la domanda iniziale

La domanda iniziale, quindi, cambia e passa da“Quanto sono ridicole le donne-manager con abiti maschili?” a “Quanto siamo ridicoli quando giudichiamo le persone in base agli stereotipi di genere?”. In buona sostanza, cosa possono – e devono –fare le aziende?  Applicare politiche e pratiche inclusive, ma anche educare e sensibilizzare: il cambiamento culturale è questo, e solo così le aziende, dove passiamo un terzo della nostra giornata, potranno diventare luoghi dove ogni individuo può esprimere liberamente e pienamente la propria identità. Individui liberi di esprimersi e liberi dal giudizio, equivale a dargli la possibilità di essere individui sereni e felici: un fattore chiave che contribuisce al successo collettivo.