Il “politicamente corretto” spesso tende a concentrarsi solo sulla forma, e a ignorare le reali problematiche che affliggono il nostro tessuto sociale e aziendale.
Un esempio su tutti: un tempo veniva detto apertamente che le donne erano considerate meno competenti degli uomini. Oggi, invece di sfidare realmente il sessismo, si afferma che le donne possono realizzarsi attraverso "altri percorsi" oltre la carriera.
E ancora: le persone di colore erano dichiaratamente viste come inferiori, mentre ora ci si concentra sulla mancanza di opportunità educative (ovviamente non per colpa nostra o loro) di cui, a malincuore, siamo obbligati a prendere atto, non senza indignarci ma non potendo fare nulla di concreto.
E se in passato l'omosessualità era considerata una malattia, oggi, il fatto di avere "tanti amici gay" sembra essere sufficiente per dimostrare la propria apertura mentale, senza che vi sia un reale impegno verso l’uguaglianza e la parità di diritti.
Questi sono cambiamenti di facciata più che segnali di progresso, e sono talvolta manifestazioni di una superficie che nasconde la mancanza di un vero cambiamento.
Il termine "green washing" si riferisce a una pratica di marketing ingannevole utilizzata dalle aziende per presentare un'immagine ecologica – ma che nei fatti di sostenibile ha poco o nulla. Il "diversity washing" funziona allo stesso modo: le aziende promuovono un’immagine di inclusività, senza però implementare cambiamenti reali e significativi. Un esempio tipico è quello di una grande azienda che, per attrarre talenti e clienti, lancia una campagna pubblicitaria inclusiva, ma poi non implementa azioni concrete per garantire che la sua forza lavoro rifletta realmente la diversità promossa.
Per esempio, lancia uno spot che mostra dipendenti di diverse etnie e orientamenti sessuali, ma mantiene pratiche di assunzione e promozione solo a favore di un gruppo omogeneo di dipendenti.
Le politiche di assunzione e gestione del personale, sebbene spesso guidate da obiettivi di D&I lodevoli, possono comportare rischi significativi quando sono applicate in modo superficiale. Molte aziende mirano a inserire donne (specialmente con background STEM) o giovani per sfruttare incentivi fiscali oppure, recentemente, si è visto un trend di inserimento di persone over 50 in ruoli operativi, non sempre allineati con la loro esperienza pregressa.
Tutto bello sulla carta, sicuramente si mira a una maggiore inclusività, ma spesso sono solo meri esercizi di conformità.
Imporre la diversità nei team semplicemente per avere "persone diverse", senza considerare come integrare e valorizzare effettivamente queste diversità, può essere controproducente e a tratti dannoso.
Ricerche condotte da McKinsey & Company e Boston Consulting Group mostrano che la D&I può portare a migliori performance aziendali, ma solo quando è autentica e l’integrazione è effettiva; in particolare, le aziende con una maggiore diversità di genere e etnie tendono ad avere performance superiori rispetto ai concorrenti meno diversificati.
Un caso concreto e per molti versi anche imbarazzante: le donne in ruoli di leadership o nei Consigli di Amministrazione (CDA). La normativa italiana, come la Legge n. 120 del 2011, richiede alle aziende quotate di garantire una rappresentanza di genere nei CDA. Tuttavia, molte aziende che hanno lasciato le Borse (non essendo quindi più soggette ad alcun obbligo) hanno, in pochi mesi, ridotto o annullato le quote rosa CDA, dimostrando che queste donne sono state nominate solo per rispettare un requisito normativo.
Un approccio autentico e strutturato alla D&I richiede tempo, impegno e un cambiamento culturale profondo, non solo per rispettare le normative o l'opinione pubblica, ma per costruire una cultura aziendale che valorizza realmente la diversità e l'inclusione.
Solo quando la D&I è gestita con genuine azioni e una vera integrazione nelle pratiche aziendali, le aziende possono superare il rischio di limitarsi al diversity washing e ottenere i veri benefici di una cultura diversificata e inclusiva.