Il “talento ribelle”: l’innovazione impertinente di chi non segue le regole

“Io son ribelle, non mi piace questo mondo che non vuol la fantasia” cantava Adriano Celentano. E non a caso, perché con il suo stile unico e irriverente e il suo modo di interpretare il rock n’roll è stato sempre considerato dai suoi contemporanei “diverso” e “fuori dagli schemi”, rivoluzionando e lasciando un’impronta decisiva nella storia della musica italiana. In altre parole: un talento ribelle. E così nel calcio Maradona, nell’arte e nella scienza Leonardo e Marie Curie, nella cucina Bottura, nella letteratura Virginia Woolf. Ma in azienda, come si riconosce un talento ribelle? E come si gestisce?

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Il “talento ribelle”: l’innovazione impertinente di chi non segue le regole

Il significato di “ribelle”

Dal lat. rebellio -onis, der. di rebellare “riprendere la guerra”.

Per alcuni la ribellione è solo un atteggiamento sfidante e contrario alle norme, una presa di posizione antagonista nei confronti dell’ordine, delle regole, dell’autorità, delle strutture e degli schemi sociali. Altri invece, vedono – e in alcuni casi, vivono – la ribellione come veicolo di cambiamento: una forza motrice del progresso che costringe la società e le persone a rivedere le concezioni sulle quali hanno sempre fatto affidamento, le regole che si sono sempre impegnati a seguire in nome dell’ordine costituito.

Non è un caso che i più grandi cambiamenti della storia sono frutto di rivoluzioni, di atti di ribellione di qualcuno che ha avuto il coraggio di pensare fuori dagli schemi, di rompere le regole imposte, di non farsi intrappolare in quel “è sempre stato così”.
E lo stesso vale per i cambiamenti all’interno delle aziende: nessuna azienda si è innovata senza qualcuno con una mente aperta e un modo diverso di pensare, qualcuno che ha deciso fosse il momento di rivedere strutture, dinamiche, processi e cultura interni all’azienda, guidandola verso il cambiamento. In altre parole (di nuovo!): un talento ribelle.

 

Il concetto di talento è in continua evoluzione

In generale, il concetto di talento è intrinsecamente legato alle abilità innate e alle competenze acquisite di un individuo. Può manifestarsi in diversi ambiti come l'arte, lo sport, la scienza e l’imprenditoria, e in diverse forme uniche nel loro genere. Il talento è tale perché è unico di ogni persona, e ogni persona lo esprime a modo proprio.

Nell'ambito aziendale delle risorse umane, i criteri di valutazione di un profilo considerato “di talento” hanno subìto una significativa evoluzione nel corso del tempo: fino a pochi anni fa si trattava di un professionista con spiccate conoscenze e competenze tecniche; oggi, invece, un talento deve possedere un mix di competenze trasversali, tecniche e soft-skill indispensabili come la creatività, la collaborazione e la leadership. L’individuazione e inserimento di questi profili nel proprio organico ormai rappresenta per le aziende una vera e propria strategia di crescita, che implementano tramite processi di selezione consolidati e aree di specializzazione quali quella del ‘Talent Acquisition’. Ma, come ci tiene a sottolineare Pietro Valdes, CEO e Fouding Partner di W Executive, non possiamo limitare il concetto di talento ad alcune caratteristiche universali:

“Non credo esista un “profilo di talento” unico e valido per tutti: è qualcosa che riesce a emergere se inserito nel contesto adatto. Il talento, nell’antica Grecia, era una moneta, per definizione ciò che tu scambi per avere qualcos’altro che vuoi. Anche nel mondo del lavoro, chi ha un talento ha una moneta di scambio per ottenere un vantaggio, ma dipende sempre dall’azienda in cui si trova. Per un’azienda piccola, il talento potrebbe essere un one man show con grande intraprendenza e performance; in un’azienda grande, un profilo del genere potrebbe non emergere, perché le aziende più sono strutturate più hanno regole e processi uguali per tutti, che spesso limitano le potenzialità di un talento. È un po’ come per Usain Bolt, l’uomo più veloce del mondo nei 200 metri: se avesse corso la maratona da 42km, sarebbe stato comunque il più veloce del mondo? Probabilmente no, perché il suo fisico e il suo talento lo rendono il migliore sulle brevi distanze. Perciò è una questione di contesto, di gara a cui partecipi”, analizza Valdes.

Alcuni talenti però emergono nonostante i limiti del contesto: sono i “talenti ribelli”.

 

Il talento ribelle: la definizione scientifica in cinque punti

Un "talento ribelle" è qualcuno che possiede competenze, creatività e un approccio non convenzionale alle sfide o alle opportunità, che pensa fuori degli schemi tradizionali, pronto ad abbracciare nuove idee e a mettere in discussione lo status quo. Il talento ribelle è chi porta innovazione, proponendo soluzioni creative spinto dalla passione e dalla determinazione a fare la differenza, anche se ciò significa andare affrontare resistenze all'interno dell'organizzazione e rivedere processi interni.

Una definizione “scientifica” del talento ribelle è stata fornita da Francesca Gino, ricercatrice italo-americana e docente alla Harvard Business School e autrice del libro “Talento Ribelle. Perché infrangere le regole paga (nel lavoro e nella vita)”:

“I ribelli godono di una pessima reputazione. Siamo spesso portati a considerarli dei piantagrane, bastian contrari e disadattati: quella particolare categoria di colleghi, amici e familiari che ama complicare le decisioni semplici, creare confusione e mostrarsi in disaccordo quando tutti gli altri sono d’accordo.” Secondo la Dott.sa Gino, i cinque principali i tratti comuni ai talenti ribelli sono: la ricerca costante di novità, la curiosità, una prospettiva nuova rispetto alle cose, diversità e autenticità.

Dalla teoria alla pratica: come si riconosce un talento ribelle?

Pietro Valdes, che nella sua carriera ha incontrato migliaia di persone e ne ha gestite altrettante, continua la sua analisi:
“Penso che un talento si considerato ribelle solo perché non riesce – o non vuole – adeguarsi al contesto in cui si trova, limitando le proprie potenzialità per non alterare equilibri e dinamiche consolidate all’interno dell’azienda. Non credo, però, sia una caratteristica innata: un talento diventa ribelle perché si ribella a una situazione in cui è stato inserito per un mismtach, un mancato incontro tra il talento del professionista e il contesto aziendale in cui è inserito. Un talento non si ribella all’azienda, ma alla cultura dell’azienda.”

Insomma, se una persona con ottimi risultati, ottime competenze e motivazione si dimette perché non si trova bene all’interno dell’azienda, allora potrebbe trattarsi di un talento ribelle che l’azienda non è riuscita a valorizzare.
“Nella mia esperienza da head hunter, non ho mai cercato il talento ribelle: ho sempre valutato se i candidati fossero i talenti giusti per quelle aziende. Se incontro un candidato con ottime competenze ma con referenze non proprio positive sull’atteggiamento, cerco di capire se si tratta di un talento che non si è trovato nel contesto adatto a lui, cioè un talento considerato ribelle. Per me avere delle referenze negative sul matching con la cultura aziendale non è necessariamente un limite, se io quel talento devo inserirlo in un contesto aziendale diverso e più adatto alle sue caratteristiche.”

 

Valorizzare il talento ribelle: apertura, innovazione e formazione

Il talento ribelle, tuttavia, non è una conquista automatica: richiede la consapevolezza della propria creatività e la determinazione a non accettare lo status quo. Non tutti i talenti sono destinati a diventare ribelli, ma quelli che dimostrano di esserlo spesso influenzano in modo duraturo il loro campo di competenza.

In un mondo in costante evoluzione, il talento ribelle diventa un faro che guida il cambiamento e l'innovazione. Celebrare e incoraggiare la ribellione come parte integrante del talento può aprire nuove prospettive, stimolare la creatività e dare vita a nuove visioni. Alla fine, il talento ribelle è la forza che rompe le catene dell'ordinario, permettendo al genio di emergere e al progresso di prosperare.
Valorizzare il talento ribelle all'interno di un'organizzazione richiede una mentalità aperta e un approccio proattivo alla gestione delle risorse umane. È fondamentale riconoscere il valore della diversità di pensiero e promuovere un clima aziendale che incoraggi il dibattito costruttivo e l'innovazione, che favorisca l'autonomia e la libertà di espressione, consentendo ai talenti ribelli di esprimere appieno le proprie capacità e di mettere in pratica le loro idee senza timore di essere repressi.

Ultimo ma non ultimo: è basilare investire nella formazione e nello sviluppo professionale di questi individui, incoraggiandoli a perseguire i propri interessi e a sviluppare le proprie competenze. Anche loro, se stimolati e formati sui punti di forza, possono sbloccare il loro pieno potenziale e massimizzare il loro impatto all'interno dell'organizzazione.

Ma come si valorizzano, in W Executive, i talenti ribelli?

Continua Valdes: “Se nella mia azienda entra una persona che considero di talento, la prima domanda che faccio è se ha dei suggerimenti su come migliorare i processi di lavori quotidiani. Penso sia una domanda che ogni responsabile dovrebbe fare in maniera aperta e ascoltare con attenzione. Perché, se non lo ascolto, non do nemmeno la possibilità a un talento di proporre qualcosa che migliora l’azienda. In W Executive siamo molto orientati agli obiettivi; perciò, anche avendo i nostri processi, se qualcuno trova un modo alternativo e rompe qualche regola nel modo giusto e con la visione giusta, ne siamo entusiasti. In contesti più piccoli e non ancora strutturati è più facile trovare un talento ribelle che porti innovazione con il suo pensare fuori dagli schemi”.

Il talento ribelle è quindi una questione che poggia tutta sul match culturale: se un’azienda vuole inserire talenti, deve costruire una cultura capace di attrarli. E se vuole inserire risorse capaci di pensare fuori dai soliti schemi, deve essere aperta “all’innovazione impertinente” dei talenti ribelli.