Ciò che emerge, nel contempo, è un grande bisogno di profili manageriali che, a fronte dell'internazionalità del settore e del cambio generazionale in atto in molte aziende, sappiano accompagnarle nello sviluppo futuro. Ne abbiamo parlato con il Presidente di FederlegnoArredo Claudio Feltrin, in un dialogo aperto e approfondito con Filippo Cesarino, Equity Partner & Founder di W Executive che vanta una lunga esperienza nell'ambito Furniture & Design.
Partiamo dai numeri: quali sono quelli più significativi che rappresentano il settore?
La Federazione rappresenta una filiera composta da circa 70.000 imprese e 300.000 addetti ai lavori, con un fatturato di 56 miliardi nel 2022, in crescita del 12,7% nel 2023 e già cresciuto del 14% nel 2021 rispetto al 2019. Una crescita quantitativa, aiutata moltissimo dalla fase pandemica durante la quale tutti noi abbiamo rimesso al centro la nostra casa: per questo la richiesta di mobili è andata controcorrente rispetto alla domanda di tutti gli altri generi di consumo. Continua Feltrin: come in tutte le cose, c’è del buono e c’è del meno buono: nel 2022 abbiamo avuto la riconferma dei dati dell’anno precedente in termini quantitativi, con un + 12,7% dovuto però all’inflazione che ha fatto alzare i prezzi dei listini. Un nostro fiore all’occhiello è la produzione tutta realizzata in Italia. Ma ahimè importiamo l’80% del legno, nonostante il nostro paese sia ricoperto per il 40% da foreste – e questo è un tema sul quale la Federazione sta lavorando con il Ministero competente –. Grazie alle nostre competenze artigianali e industriali e alla qualità della nostra manodopera, riusciamo infatti a trasformare il legno, un materiale "povero", in prodotti di alta qualità e dall’alto valore aggiunto. Da qui deriva la nostra leadership mondiale che le nostre aziende sono state capaci di costruire in tutti questi anni.
Dal numero di aziende e di addetti ai lavori, salta subito all’occhio che si tratta di un settore fortemente polverizzato, con aziende mediamente piccole. Questo può essere un plus ma anche un minus. Lei come la vede?
Come sempre ogni medaglia ha il suo rovescio: essere piccoli permette di mantenere l’artigianalità che è sempre apprezzata, ma allo stesso tempo mette nella posizione di affrontare le tempeste del mercato globale in maniera meno strutturata. Possiamo dire che più l’azienda è grande, più è strutturata e più avrà la capacità di affrontare questi eventi straordinari.
Nel nostro lavoro di ricerca e selezione ci interfacciamo sempre più spesso con società che vogliono crescere, che affrontano il problema del passaggio generazionale e ci chiedono di trovare dei manager. Il punto è che c’è una forte carenza di management nel settore specifico, e cerchiamo quindi di reclutare queste figure anche da mercati paralleli. Come la vede?
Partiamo dal presupposto che si tratta di aziende piccole, nate da intuizioni dei fondatori, senza la possibilità di formare dei manager. E magari quelli che ci sono non hanno la preparazione per il cambiamento di scenario. Di fatto, l’apertura verso terzi è complicata, è uno scatto mentale, un cambio di paradigma e modello: il fondatore non dev’essere più il padrone assoluto che si fida solo di sé stesso. E se assume un manager non gli può certo dire che le cose non vanno cambiate, altrimenti rischia che se ne vada o si adagi e non contribuisca a portare valore aggiunto. Non è detto che tutti i manager debbano necessariamente conoscere il settore, almeno non per figure non strettamente legate al prodotto. È chiaro però che un Amministratore Delegato che assume il ruolo dell'imprenditore ed è chiamato a guidare la visione strategica dell'azienda deve avere una conoscenza quasi obbligatoria del mercato perché caratterizzato da una specifica intangibilità, che ci rende unici e che si può comprendere solo con una certa sensibilità. I fondi hanno smosso un po’ questa situazione, tanto che negli ultimi dieci anni diversi manager sono stati formati in seno alle aziende che sono cresciute grazie a loro e grazie anche a imprenditori illuminati che si sono resi conto di questa necessità. Quello che però fanno fatica a capire i fondi è che per un manager 1+1 è uguale a 2, mentre per un imprenditore potrebbe fare 2,5. Su certi investimenti gli imprenditori sono più propensi a un rischio meno calcolato, il manager invece no. È molto importante bilanciare queste diverse propensioni.
Non pensa che la sfida sia questa? Aprire la governance e strutturare a livello manageriale, altrimenti rischiamo – come nel mondo della moda – di creare aziende la cui proprietà poi si sposta da un’altra parte.
Si è vero, questo è un po’ il pericolo. Siamo stati bravissimi a creare linee, prodotti che in altre parti del mondo non riescono a fare. Però il design scandinavo è nato quando in Italia nemmeno sapevamo cosa fosse il design. Oggi siamo tra i più bravi a farlo – se non i più bravi. Ma c’è un rischio: siamo meno capaci nel gestire il nostro successo, la comunicazione e comprendere i nostri valori. Questo ci impedisce anche di crescere, perché l’artigianalità fatta crescere a livello industriale è sempre una contraddizione. Un esempio è Ikea, che da sola fattura quanto la nostra intera filiera, però non è capace di proporre le cose che proponiamo noi e probabilmente nemmeno vuole.
Le nostre aziende del design spesso portano il nome di chi le ha fondate, che invece va sganciato e concepito come brand. Per genetica si diventa azionista, le capacità manageriali sono un’altra cosa. Bisogna imparare a essere bravi azionisti e, laddove serve, lasciare ai manager il loro lavoro.
Concordo. Nella mia famiglia nessuno dei miei figli e di quelli di mio fratello ha intenzione di continuare in questo settore. Ecco, il passaggio è proprio quello: rimanere come proprietà, perché c’è una responsabilità ed è importante sapere mantenere la continuità e quell’aspetto di originalità dell’azienda. Questa è un’evoluzione importante che le nostre aziende devono fare, soprattutto quelle piccole che sono ancora molto a dimensione familiare. Bisogna alzare la testa e trovare le risorse per pensare al futuro dell’azienda.
Molte realtà del settore con brand importanti e showroom monomarca, mi dicono di non voler più partecipare al Salone del Mobile. Ma così non rischiamo di uccidere il Salone?
Le aziende che oggi fanno questo discorso sono aziende grandi che si sono posizionate a livello globale, che hanno una serie di showroom a Milano. Ma il Salone è ben altro: è business, è comunicazione, è ricerca, è presentarsi al mondo, è poter vedere in uno spazio unico il meglio del settore e le tendenze del domani. Non esserci è come dire che una squadra di serie A si allena, ma non partecipa al campionato. Mi lasci dire che questo tipo di pensiero è venuto fuori negli anni 2021-2022, quando c’è stato un boom tale di richieste che le aziende non riuscivano neanche a evadere tutti gli ordini e quindi non andavano alle fiere perché non sapevano proprio come gestire la mole di ordini. Ma a chi mi faceva questo tipo di ragionamenti ho sempre detto che bisogna considerare che qualche azienda può avere un livello di distribuzione tale per cui non ha bisogno della fiera, ma sarei sempre molto prudente a fare una scelta del genere. Le fiere fisiche e il Salone più di tutte, sono insostituibili, soprattutto per le aziende più piccole, meno strutturate e che vogliono affacciarsi al mercato: il Salone è la vetrina più economica ed efficiente e una vetrina che non ha nessun altro paese al mondo e che siamo riusciti perfettamente a integrare con la città e per questo dobbiamo averne grande cura. Fino al 1999, c’era la fiera di Colonia che era la più importante al mondo per il nostro settore; quando le aziende italiane hanno deciso di non presentare più le loro novità a Colonia ma di farlo a Milano, la città è decollata. Dobbiamo capire che questo è un patrimonio che non possiamo difendere guardando solo un foglio Excel, perché da esso dipende tutta la nostra filiera. Detto questo anche il Salone con il COVID ha iniziato a pensare a un approccio digitale e da lì è nato un percorso e un prodotto digitale che adesso è sotto gli occhi di tutti e apprezzato da azienda e comunity del design.
A noi interessa che cresca a livello internazionale l’intero settore, non solo le aziende. Dall’altro lato, spesso quelli che dicono “posso permettermi di non fare il Salone” lo dicono perché esiste il Salone, perché sono arrivati lì anche grazie ad esso.
Ha toccato un punto fondamentale, e abbiamo avuto la controprova con il COVID. Difendere il Salone vuol dire difendere la propria filiera e la propria azienda. Non si può pensare che "tanto lo fanno gli altri a loro spese e io sfrutto tutto il movimento che il Salone genera". Significa avere una visione un po’ miope. Il Supersalone - ad esempio - ci ha permesso di mantenere viva la fiamma del Salone stesso e di Milano in un periodo complicatissimo. Le aziende che decidono o hanno deciso in passato di non partecipare fanno un po’ la politica del cuculo, perché godono del riflesso positivo che ha il Salone sull’intero settore, usufruendo della partecipazione degli altri, ma senza contribuire. Ma non capiscono che ogni azienda ha anche una sua responsabilità, e che difendere il Salone vuol dire difendere la propria filiera e la società di cui si fa parte. Se non lo si fa, non si ha un pensiero etico e sociale che ritengo degno di un imprenditore.
Il 2023 è stato un anno di stabilizzazione e di numerosi eventi geopolitici che inevitabilmente hanno influito. Il 2024 dal suo punto vista come sarà?
E’ una domanda che ci facciamo tutti ogni giorno. Il nostro centro studi realizza un monitoraggio trimestrale a cui partecipano 450 aziende che cubano circa 10 miliardi di fatturato. L’ultimo rilevamento fatto a giugno ci ha indicato un -6% di media rispetto al ’22. Motivo per cui non sono molto ottimista: sarà un anno in cui dovremo navigare a vista, influenzato da quello che succede nel mondo, che non sembra prevedere soluzioni in tempi brevi. E anche quando arriveranno le soluzioni, bisogna vedere come sarà l’ordine mondiale che si costituirà. Tutti questi eventi creano incertezza nel business, a cui si aggiunge l’inflazione e la perdita di potere d’acquisto del 10% che i clienti hanno vissuto e che ha un maggiore impatto su chi ha già meno disponibilità economica.