Negli ultimi tempi, si ascolta sempre più spesso la narrazione secondo cui l'Europa sarebbe “rimasta indietro” nell'AI a causa della sua regolamentazione. «I colpevoli sono l’AI Act e il GDPR»: una tesi facilmente argomentabile, che però rischia di essere una scusa per nascondere tutte le altre ragioni. Qui, infatti, sosterrò che la normativa europea non è né una panacea né un ostacolo insormontabile, ma non rappresenta certo la principale causa del ritardo tecnologico europeo.
Attenzione, le voci che senza andar troppo per il sottile criticano le normative UE sono molto autorevoli e proprio per questo il dibattito dovrebbe essere preso seriamente.
Alec Ross, intellettuale americano e docente molto ascoltato ultimamente in Italia, sottolinea in una recente intervista: “Dal punto di vista politico, l’Ue dovrebbe fare esattamente l’opposto rispetto alle sue attuali politiche. A un anno dall’entrata in vigore dell’AI Act europeo, sappiamo ormai che si tratta di un totale fallimento.Dovrebbe essere sospeso”. E ancora: “Non si tratta di una questione di denaro, ma di quanto rischio si è disposti ad accettare. È meno una questione di risorse economiche e più una questione di tolleranza al rischio e di desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo”.
Nel frattempo, dalle pagine dell’Economist, Mark Zuckerberg (META - USA) e Daniel Ek (Spotify – Svezia) mettono in guardia sul futuro dell’AI in Europa. Il denominatore comune delle loro critiche? Manco a dirlo, la regolamentazione restrittiva.
Anche il Rapporto Draghi – invero decisamente più equilibrato – evidenzia come in Europa nel campo dell’innovazione ci siano "normative incoerenti e restrittive" e conclude indicando che serve un equilibrio tra regolamentazione e innovazione.
Negli Stati Uniti, l’approccio all’intelligenza artificiale somiglia al Far West: un territorio vasto, senza regolamentazione stringente, dove chi ha più risorse può imporsi senza troppi vincoli. Le grandi aziende tecnologiche si muovono determinando da sole le regole del gioco.
La Cina, invece, è una Grande Muraglia Digitale: l’AI è sviluppata all’interno di confini ben delineati, mentre il governo impone con direttive politiche e norme una rigida supervisione su algoritmi e dati. Le aziende locali godono di un enorme supporto statale ma a chi sbaglia di solito vengono comminate vere e proprie punizioni.
L’Europa, infine, oggi è come una ZTL (Zona a Traffico Limitato): l’accesso è regolamentato, i limiti sono definiti e chi non rispetta le regole verrà (molto probabilmente) sanzionato. L’AI Act e il GDPR impongono controlli, distinguendo tra tecnologie ad alto e basso rischio.
Se fosse davvero solo una questione di regole, controllo burocratico e penalità, oltre all’Europa, anche la Cina non dovrebbe trovarsi tra i leader mondiali dell’intelligenza artificiale. Eppure, lo è. Il vero nodo quindi risiede altrove, in una serie di fattori strutturali sui quali l’Europa sembra aver tirato da tempo i remi in barca.
Demonizzare la regolamentazione europea per il ritardo nell’AI è una comoda scorciatoia narrativa. L’Europa deve colmare lacune industriali e tecnologiche fondamentali e troppo a lungo ignorate.
L'AI Act può certamente essere perfezionato, ma eliminarlo non cambierebbe la sostanza. Con buona pace dei liberisti, se domani Bruxelles abolisse ogni regolamentazione sull’AI, il continente non diventerebbe improvvisamente l’El Dorado dell’Artificial Intelligence. Il vero nodo sta nella carenza di produzione, infrastrutture, talenti. Senza questa solida base industriale e tecnologica, una futuribile leadership europea in campo AI resterà un’aspirazione e continuerà a rimanere solo un buon argomento per scrivere post su LinkedIn.
Nel frattempo, la discussione su un presunto "primato europeo" nell'AI può suonare vuota. A che scopo voler essere i primi quando siamo – in termini largamente ottimistici – a malapena in zona podio? Per un maggior potere internazionale? Per un aumento del PIL? Per un posto sul podio dell'innovazione? O per rafforzare capacità di difesa e sorveglianza?
La normativa europea, sempre imperfetta e alla rincorsa del progresso tecnologico, si pone già una buona domanda: l’Europa ha bisogno di rincorrere il modello americano o cinese, o può costruire un paradigma alternativo, fondato su un’idea più umana e sostenibile di progresso? Forse, invece di ossessionarsi sulla supremazia tecnologica, l’Europa può puntare su un approccio che metta al centro lo sviluppo umano. E questo, per fortuna, non è qualcosa che si misura in petaflop o algoritmi proprietari, ma nella capacità di migliorare la vita delle persone.